ROMAGNA. NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE / 23 / La tradizione della Segavecchia: la Vecchia bruciata, spesso segata all’addome, fa uscire frutta secca e dolci, come in un parto simulato

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La tradizione del «sacrificio» di un fantoccio raffigurante una vecchia nel giovedì di mezza Quaresima era un tempo diffusa in una vasta area dell’Europa, e veniva celebrata più o meno intensamente in molti centri della Romagna. A Cotignola e a Forlimpopoli la festa raggiungeva le sue dimensioni maggiori, in virtù dell’assunzione delle caratteristiche di sagra e fiera; ma non c’erano città o paese dove in quel periodo non si moltiplicassero iniziative o semplicemente bancarelle di agrumi e frutta secca, magari affiancate dal simulacro della Vecchia. Quasi ovunque, poi, vigeva la consuetudine, da parte dei più piccoli, di chiedere alla donne anziane il dono della Segavecchia, che consisteva più che altro in frutta secca o qualche dolcetto, o di costruire con stracci e altro un fantoccio della Vecchia ornato di frutti e andare con quello in giro per le strade.

«Ogni manifestazione biologica», scrive Eliade, «avviene grazie alla fecondità della terra; ogni forma nasce da lei, viva, e a lei ritorna quando è esaurita la parte di vita che le era stata assegnata. Vi torna per rinascere, ma prima di rinascere per riposare, purificarsi, rigenerarsi»; dunque «nessuna scomparsa è decisiva: la morte delle forme viventi è soltanto un modo latente e provvisorio di esistenza» (M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 1976, pp. 262-263); e ciò va esteso dalla Terra stessa, madre di ogni manifestazione biologica, ai suoi innumerevoli figli, cioè a tutto ciò che sopra di essa vive, uomini compresi. La Madre Terra ha un rappresentante umano privilegiato: la donna. «Essendo solidale con gli altri centri di fecondità cosmica – la Terra, la Luna – la donna acquistava anch’essa il prestigio di influire sulla fertilità e il potere di distribuirla» (Ivi, p. 266), oltre che di rappresentarla. Le antiche Matrae o Matronae di cui si sono trovati significativi simulacri provenienti dalla remota antichità, spesso recanti sulle ginocchia cornucopie, patere, cesti di frutta o bambini avvolti in fasce, si inscrivono in questa attribuzione e in questa simbologia.

Una donna vecchia, o meglio la Vecchia, invece, rappresenta la stessa Madre Terra che, sul finire dell’inverno, è spoglia, infruttifera, spossata, piegata; è decrepita, grinzosa, magra, indossa abiti dimessi. Non per il suo aspetto, comunque, la Vecchia Donna / Madre Terra perde le proprie caratteristiche di scrigno di fecondità: le mostra solo impoverite, datate; nella generale consapevolezza, però, che nell’eterna circolarità del divenire a quella sterile vecchiezza seguiranno una rigenerazione e un ritorno (nella forma e nella sostanza) alla vitalità e fecondità, soprattutto se col rito si asseconderà e favorirà tale processo. Per tutto ciò, la Vecchia si equipara e si assimila anche ai morti, entità temporaneamente «esaurite» ma in grado e in attesa di tornare come rigenerate; si equipara a loro, dicevamo, e in certe occasioni (come nella Befana dell’Epifania) li rappresenta, assumendosi il ruolo di essere il loro archetipo mitico.

Segavecchia

Festa della Segavecchia a Forlimpopoli

Nel calendario folklorico c’è appunto un momento in cui tale dinamica (quella cioè di impetrare un rinnovamento delle potenzialità fecondative che paiono esauste) si evidenzia in modo chiaro: quello del giovedì di mezza Quaresima in cui si «sacrificava», come abbiamo visto, il simulacro di una Vecchia, a volte bruciandolo, più spesso (ed è in questo che vanno individuati la forma originale e il senso del rito) segandolo all’altezza dell’addome; dallo squarcio prodotto uscivano frutta secca, dolci, eccetera. Insomma, il fantoccio «sacrificato» non rappresenta un’energia esaurita da eliminare, quanto piuttosto un’energia che deve rinnovarsi, superando la contingenza calendariale e stagionale: superamento che viene propiziato e forzato col rito. Ciò che si simula col rito, come abbiamo già detto, non è semplicemente una «uccisione»: è piuttosto un parto, per quanto volutamente – e brutalmente – accelerato e figurato, cioè chiesto e ottenuto con l’aiuto della magia imitativa, quella per cui si ottiene un risultato simulandone gli effetti.

Segavecchia

Il rogo della Vecchia a Cotignola

Laddove il simulacro viene o veniva bruciato, si è molto probabilmente in presenza di una dilatazione – e contaminazione – dei vari riti di falò e roghi invernali e primaverili che in più date (dall’Epifania al giorno di Sant’Antonio Abate, dalla Candelora al «lume a marzo», dal giorno di San Giuseppe al Calendimaggio, ecc.) erano presenti ovunque. E che con la Segavecchia hanno poco a che fare; perché se tutti gli altri sono appunto falò e roghi, qui il rito, almeno nella sua forma pura, è diverso, a partire dal nome, che è chiaro nell’indicarci che la Vecchia non viene «giustiziata» in un intento punitivo o eliminatorio, ma viene segata all’altezza del ventre gravido, da cui escono frutti, alimenti e prosperità. E questa è l’essenza stessa del rito.

Una comparazione con il gioco-rito della «pentolaccia» (in romagnolo: la pignatàza) che i bambini si sfidano a rompere nello stesso giorno in cui si sega la Vecchia ci indirizza a comprendere: anche la pentola di coccio infatti, oggetto rustico e all’apparenza povero, contiene cibo e dolci, e come il ventre della Vecchia viene rotta per lasciarli uscire. Pure questo è un «parto» ritualizzato, è l’apertura anelata e forzata di uno scrigno di risorse.

Pentolaccia

Rileggendo le descrizioni della Segavecchia in Romagna (e altrove) emerge chiaramente che, dal punto di vista morfologico, ci si trovi di fronte anche al reiterarsi, in Quaresima, di diverse forme celebrative di stampo carnevalesco (le maschere, i carri, il clima caotico, gli scherzi, l’abbondanza di cibo e di intrattenimenti, ecc.), così che è forte la tentazione di considerare semplicemente la Segavecchia un’appendice del Carnevale, e di considerare l’«uccisione» della Vecchia un equivalente di quella sacrificale di Carnevale stesso. Ma la complessità carnevalesca della festa innanzitutto era presente più che altro laddove essa diveniva anche sagra e fiera; poi il riproporre elementi carnevaleschi, se rappresenta uno sconfinamento e una inevitabile (visti i tempi ravvicinati) contaminazione di carattere morfologico, non per questo attribuisce alle distinte celebrazioni lo stesso intento e significato.

Qui siamo alla fine dell’inverno, quando le scorte sono quasi esaurite e la terra e la natura, pure prossime al risveglio primaverile e quindi al ritorno delle disponibilità alimentari, sono ancora spoglie. Dunque la Madre Terra è allo stesso tempo decrepita e incinta, cioè gravida di tutto ciò che sta per ripresentarsi e rifiorire, in un affascinate ossimoro simbolico. Il suo «parto» indotto vuole significare e favorire (forzandolo) il ritorno dei beni alimentari nei campi, nei pollai, nelle dispense. Tutto questo in un momento in cui la primavera si annuncia ma ha bisogno, per vincere sull’inverno, dell’intervento della magia imitativa: e la lotta tra le due stagioni è efficacemente rappresentata dalle battaglie rituali che anche nel giorno della Segavecchia vedevano qua e là lanci incrociati, tra due schieramenti avversi, di confetti, farina, gesso (materiali bianchi che richiamano alla neve e all’inverno) da una parte, e di agrumi (simboli solari e dell’estate) dall’altra.

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